Prendi tutta la vita che c’è: una riflessione da “Com’è bella la città”
Ricordate lo spettacolo “Com’è bella la città”?
Era il 22 marzo 2013 quando, nel Ridotto del Teatro Municipale Valli a Reggio Emilia, andava in scena un’emozionante momento di riflessione a cura di Graziano Delrio, Francesco Merli e Tommaso Dotti, con registrazioni audio/video di Giorgio Gaber, nell’ambito della rassegna “Quando parla Gaber”.
Oggi vogliamo riproporvi un intenso passaggio di quell’evento, scritto da Maria Rinaldi e da leggere tutto d’un fiato, per buttarsi “a capofitto prendendo tutta la vita che c’è”…
“(…) Ho vivi i ricordi come fossero fotografie: ne riconoscerei ogni odore, colore, sapore.
Tutto aveva un senso, un preciso ordine, un perché, una bolla di vetro tessuta ad incastro perfetto che lentamente prende vita. Stavo camminando in terra straniera ma non ne ero spaventata. Potevo essere trafitta e nessun sangue versato, attraversata svuotata, sarei rimasta intera. Mi toccavo e non sentivo, eppure ero corpo, tremavo, sudavo. Vivevo un ritmo che non era il mio, non è nemmeno il vostro, un mondo che correva quando ero ferma e soffocava mentre gridavo. Avrei voluto seguirne il battito ma emozioni e sentimenti erano congelati, faticavo a darne voce, titubavo nel comunicare.
Cominciai a perdere i capelli, prima a piccole ciocche poi completamente.
Niente più nascondino dietro quella massa dorata, nessun giocherellare per disagio o per svago. Tutti quei ricci, ora spenti, morti. Dalla loro presenza assenza dipendeva la mia identità. Mi stupii con quanta facilità mi riconobbi ugualmente o forse mi vidi per la prima volta. Sentii di non essere io ad avere perso loro ma loro a perdere me.
La pelle si fece liscia, le ciglia invisibili. Talvolta guardandomi allo specchio faticavo a scorgervi luce, l’ansia di perdermi mi opprimeva la gola e un brivido ansimare. Pochi attimi, poi di nuovo il respiro. L’assurdità di quel corpo il non sentirsi brutta.
Come faccio a giustificarmi, a giustificarvi, il paradosso di marcire e sentirmi invece viva, leggera, finalmente libera? Questo corpo scarno, queste ossa, ora le sento, sono più vicine al cuore, filo diretto per la mia anima.
Ho sempre vissuto il disagio dell’attesa, la sensazione di non avere luogo, occupare uno spazio troppo piccolo troppo grande, ad ogni modo troppo perché possa accogliermi, nel quale possa riconoscermi, eppure di fronte a quel corpo deforme non vi erano giudizi, ne percepivo purezza e meraviglia. Non era compassione o tenerezza, come si è soliti pensare, ma la libertà d’essere e la consapevolezza che non vi è nulla di più. Quello era il mio tempio ed io lo occupavo appieno.
Certezza che si affievolì con la fine delle cure. Certo non fu una passeggiata.
Quel sapore in bocca e quelle ragadi che ti fanno cagare sangue, e la nausea, quella nausea, possiamo andare avanti ma “il corpo ha una memoria infallibile, si ricorda la sensazione di gambe e braccia anche quando non ci sono più”.
Bevi veleno per dissetarti, vomiti per ribellione, ti gonfi, eccome ti gonfi, pisci arancione per liberartene ma non te ne liberi mai. Liquido di morte per liquido di vita, il paradosso.
Riuscivo a vivere di quella logica, a non perdermi. Da abile tessitrice ne seguivo il filo lasciandomi guidare quasi cullare da quel moto di leggerezza e semplicità di senso. Strideva con la pesantezza delle cure ma conferiva ad ogni gesto e azione un perché e di questo mi nutrivo. Avevo scopo, istinto di sopravvivenza, ragion d’essere, mi ci sono aggrappata senza domande o suppliche.
Che puoi fare? Ti butti a capofitto prendendo tutta la vita che c’è (…)”.
Maria Rinaldi
Testo tratto da “Com’è bella la città” (rassegna “Quando parla Gaber”) · 22 marzo 2013 · Teatro Municipale Valli, Reggio Emilia