Doria
Buongiorno, sono Doria, un’infermiera che lavora in un reparto di degenza non tradizionale, quello a bassa carica microbica. Per condividere la mia esperienza in questa realtà ho deciso di scrivere questo racconto.
“Quando sono entrata per la prima volta nel reparto di bassa carica microbica ero molto inesperta e non capivo dove fossi capitata.
Un collega mi ha accolto all’ingresso ‘blindato’ e mi ha accompagnato all’interno: l’odore prevalente era quello di disinfettante, i rumori esterni erano attutiti. Come costante sottofondo si udiva il sibilo del sistema di aerazione e la luce era quasi totalmente quella artificiale.
Gli operatori, poco riconoscibili visto che indossavano cuffia e mascherina, erano molto concentrati a preparare grandi vassoi di farmaci.
Nessuno parlava… poi, finalmente, uno di loro si è avvicinato, mi ha guardato negli occhi, ha abbassato la mascherina e si è presentato, dandomi il benvenuto.
In quel momento ho finalmente ripreso a respirare. Mi sono sentita un po’ meno sperduta e ho cominciato a pensare che forse avrei potuto provare a restare.
Questo mio collega non lo sa, ma in quel momento mi ha insegnato – prima di tanti corsi di formazione, che sono arrivati dopo e hanno perfezionato la cosa – che un sorriso, il farsi riconoscere, l’abbassare per un attimo le barriere sono piccole cose, che possono aiutare il paziente ‘smarrito’, nel momento in cui arriva per il ricovero.
Non mi sbilancio ad affermare che questo la annulli totalmente, ma almeno contribuisce ad abbassare la tensione dell’ ingresso: sono certa che entrare in questo ambiente asettico, in questa realtà distorta, sapendo di dover restare per lungo tempo e in chissà quali condizioni possa davvero far venire voglia di scappare, soprattutto se sulle spalle si ha già un pesante bagaglio emozionale.
Poi ho conosciuto il paziente ricoverato.
Prima vedendolo attraverso un monitor presente in guardiola: in ogni stanza una telecamera tiene sotto stretta sorveglianza la persona ospitata. La definizione del monitor non era ottimale, quindi nel suo letto sembrava piccolo, non si vedeva bene… quindi io, sempre da inesperta, mi immaginavo chissà che.
Durante le consegne i colleghi avevano usato i termini “ trapianto” e “pancitopenico”, sottolineandomi più volte la fragilità che caratterizzava queste condizioni.
Avevo quasi paura a entrare nella stanza: cosa avrei trovato? Come sarebbe stato un paziente trapiantato? Non ne avevo mai visto uno. Temevo quasi di rompere qualcosa.
Cosa avrei potuto dire e fare? Il paziente avrebbe notato la mia ‘incapacità’?
Eccome se la notò! Ma non me lo fece pesare, anzi. Quella volta, al mio ingresso in stanza, fu il paziente ad accogliermi. Mi riconobbe come ‘nuova’ e mi accolse nella sua ‘casa’ provvisoria.
Ebbene sì. È questo che diventano le nostre stanze, per il paziente: una casa. Il ricovero è spesso molto lungo, l’uscita non è consentita, se non in rari casi, e gli ingressi dei visitatori sono molto limitati.
Anche quel paziente non lo sa, ma anche lui mi ha insegnato qualcosa.
In quel momento mi ha fatto capire che la stanza di bassa carica microbica, a cui noi abbiamo libero accesso per esigenze di cura, in realtà non è nostra, ma sua. Non solo per gli effetti personali che gli consentiamo di portare, nel limite del possibile, ma perché quei pochi metri quadrati saranno gli unici all’interno dei quali lui potrà muoversi. Quelle quattro mura saranno le uniche che potrà fissare, il panorama di quella finestra l’unico che avrà il piacere di vedere.
Tutto questo per parecchio tempo.
Dobbiamo quindi entrare in punta di piedi, chiedere permesso, rispettare lo spazio dell’altro.
Utilizzare i nostri strumenti nella sua intimità, perché è necessario per assisterlo, ma senza invadere, senza violare la sua persona.
Non è facile, quando siamo in un ospedale. Soprattutto con un paziente provato nel fisico, nello spirito, spesso molto giovane e lungamente rinchiuso in una ‘bolla’, dove eventi ed emozioni sono amplificati all’ennesima potenza.
Con il tempo, piano piano, sono arrivate la ‘fiducia’ e la ‘confidenza’: quei valori che rafforzano molto la relazione, che rassicurano sia l’operatore che il paziente, che ci aiutano a coinvolgere quest’ultimo nelle cure. O a distrarlo da esse, se necessario.
Valori che ci portano ad ascoltarlo, a discutere sulle decisioni che ci sembrano più giuste per lui e a dare risposte alle domande difficili che ci pone.
Senza paura di rispondere con il silenzio, se una spiegazione logica a certi eventi proprio non riusciamo a trovarla…”
Il mio racconto è finito. Non aggiungo altro di mio. Vorrei però terminare con le parole che ho ‘rubato’ a un paziente, ormai dimesso dal reparto a bassa carica microbica. Sono parole scritte per essere di incoraggiamento a chi ancora è dentro e che dicono molto di più di ciò che potrei dire io, sul punto di vista del paziente:
“In queste settimane pesanti e stremanti non posso che pensare a quel mondo.
Quel mondo che mi ha accolto come una bambina in cerca di cure.
Quel mondo dove i sentimenti, le paure, le emozioni non sono sintomo di debolezza, ma anzi, sono l’ unica cosa che ti fa vivere.
Quel mondo dove non ci sono discriminazioni di genere, razza, ceto sociale.
Quel mondo parallelo che molti, per fortuna non conoscono.
Quel mondo è stata la mia casa per mesi.
Sappiate, però, anime che ora abitate il mondo parallelo, che qui fuori tutto è esattamente il contrario. Quindi caricatevi di tutto l’ amore possibile e fate di questa esperienza tesoro. Perché dopo aver vissuto tutto ciò, guarderete il mondo con occhi nuovi e pochi capiranno voi e la vostra immensa voglia di vivere…”
GRAZIE
Doria