Giada
“Giada chiama la tua mamma, non ti lascio andare fino a quando le tue gengive non smetteranno di sanguinare!”.
Il dottor Fausto Montanari, degno di essere nominato, tranquillizzandomi e facendomi ingurgitare fiale di Ugurol senza tregua, spiega a mia madre che sarebbe il caso farmi fare subito esami più specifici all’ospedale più vicino per approfondire la situazione.
Guastalla. Il viaggio è traumatico.
I fazzoletti gettati ai miei piedi, appena dopo esser stati appoggiati alle gengive, prendono in pochi attimi il color rosso della Volvo V70 sulla quale viaggio. Mi fanno gli esami del sangue non curandosi della mia agofobia. Mi richiamano pochissimo dopo dentro alla saletta.
Percepisco dei medici solo lo sguardo distaccato ma pieno di accortezza nei miei riguardi. Qualcosa non va, me lo sento.
“Signorina non abbiamo ancora chiuso gli esami ma… mi scusi non è facile da dire… lei presenta una forma di leucemia fulminante. Ora, di corsa, vada all’ospedale Santa Maria Nuova di Reggio, sa dov’è, vero? Abbiamo già avvertito chi di dovere, la stanno aspettando. La situazione è abbastanza grave”.
Mi portano a Reggio e senza accorgermene arriva la sera. Le uniche cose intorno a me sono un letto bianco, un anonimo stanzone, quattro letti vuoti a fianco a me e mia madre di fronte che mi guarda preoccupata seduta su una sedia color verde-alluminio. Quella notte non passa mai. Mi basta fare all’uomo in camice bianco che mi stava seguendo una semplice domanda: “Dottore ma sto per morire?”. Dalla risposta capisco la gravità della mia situazione: “Signorina, glielo saprò dire se domani mi risponderà ancora, perché ora come ora nulla sta andando per il verso giusto”.
Da quel momento per me: la svolta. Il mio cervello pensa solo ad una cosa: Giada hai toccato il fondo, più giù di cosi non ci si può andare. Dopo anni di lotte hai ora di fianco a te la persona che hai sempre voluto, non puoi mollare, non puoi farlo cadere nelle mani di un’altra che non sia tu. Resisti, stringi i denti, combatti, se devi, ma non mollare. Tutto è nelle tue mani ora.
Per molti sembrerà un ragionamento stupido, o meglio, l’ultima cosa a cui dovessi pensare dato cosa mi stava accadendo, ma quella stupidità ed ingenuità da ventenne sono state la mia salvezza. Da quel giorno iniziai a combattere. Il giorno dopo mi hanno diagnosticato la leucemia promielocitica acuta. Il primo mese in ospedale passò senza che io me ne rendessi conto. Flebo, chemio, trasfusioni diventano la mia quotidianità. Con il mio spirito da animatrice di villaggio non mi astenevo dal far divertire le mie compagne di stanza sempre in condizioni peggiori della mia. Ma il mio sfogo privato ce l’ho ed è, da buona ventenne, Facebook. Su quel blog libero ho trovato tutto il conforto di cui avevo bisogno, tutte le informazioni di cui avevo bisogno, tutto l’amore di cui avevo bisogno. Si, perché di fianco a me, chi mi aveva promesso amore, se n’era andato.
Il mio fisico inizia a cambiare e lo vedo. I capelli rasati, il gonfiore delle terapie di cortisone, lo strabismo dovuto alle pasticche di vesanoid, quel acido maledetto. Esco per un paio di settimane, cerco di risolvere i vari problemi di rapporto amore-amicizia, ma tutto degenera. Rientro al secondo ricovero con una grossa depressione che nessuno, se non io potevo capire. Cerco di fare un gesto estremo, lanciarmi dalla finestra, per fortuna, le infermiere mi somministrano appena prima il Tavor e da li persi ogni cognizione della realtà. Il terzo ricovero mi sembra di farlo per sfizio. Infatti da quella grossa crisi il mio fisico si era ripreso alla grande e ormai i valori non scendevano più. L’ultimo ricovero di solo una settimana lo passo cosi, tra una chiacchiera e l’altra. Non me ne sono nemmeno resa conto. La chemio in Day Hospital però mi devasta. Passo 4 giorni a casa con la nausea, i valori bassissimi. Forse li era la mia testa che non era affatto a posto.
È passato oramai un mese. Ora sono a casa, ho deciso di togliere la parrucca, mi sto sgonfiando, sto tornando ad essere una persona normale, il pIc al braccio non c’è più, ora posso vestirmi come voglio. La persona che mi ha fatto più male ha deciso, dopo ritorni strani, di riandarsene, ma gli amici, quelli veri di sempre e tanti altri nuovi, non fanno altro che frequentare casa mia a forza di cene e pranzi. Clinicamente avrò ancora 2 anni da fare sotto controllo e sotto terapie, ma mentalmente posso dire di essere guarita.